domenica 23 febbraio 2014

IN CINA SUL TRENO A VAPORE

   
   
Tecnici italiani e cinesi davanti al treno a vapore
La zona industriale era servita da un raccordo ferroviario e giornalmente vi transitavano dei treni merci, qualche volta con locomotore diesel, altre a vapore. Quando sentiva il caratteristico sbuffare, uno dei nostri, appassionato, mollava tutto e usciva a godere dal vero ciò che a lui era concesso solo in modelli. Si fermava a guardare per qualche minuto e poi, con un velo di tristezza, tornava al lavoro. La cosa non era sfuggita a uno dei responsabili locali. Un giorno la vecchia locomotiva, senza vagoni, venne a fermarsi proprio davanti alla “nostra fabbrica” e lanciò un fischio assordante. L’appassionato di treni si precipitò fuori e noi con lui. Quando ci vide, il macchinista fece cenno di salire. Dietro di noi il capo reparto cinese ci esortava e spingeva con le mani aperte, come fanno le maestre quando incitano gli scolari a entrare in classe.
Rotti gli indugi, montammo su quell’ammasso di ferraglia nera.  Il macchinista tirò ancora l’asta del fischio, l’aria fu lacerata dal sibilo assordante e dagli sbuffi di vapore. Poi azionò in modo coordinato altre due manovelle e partimmo sommersi dal clangore. La locomotiva si mosse piano, poi accelerò in modo incredibile e prese a filare veloce tra gli stabilimenti per uscire infine nella campagna. Dietro avevamo solo il tender porta carbone, aperto verso la cabina. A un cenno del caporeparto il macchinista consegnò la pala all’appassionato, aprì il focolare e il nostro vi riversò dentro quattro generose palate. Tornammo dopo una mezz’ora, felici come bambini, in particolare il fuochista che disse soltanto: “La racconterò, questa, ai miei amici modellisti”.

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giovedì 20 febbraio 2014

IN VIAGGIO CON IL SOCIOLOGO

La valigia di pelle, analisi sociologica del viaggiare e dei viaggiatori
Commento al libro di Bruno Tellia *



«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.»
«Dove andiamo?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare».

Così lo scrittore statunitense Jack Kerouac nel libro On the road (1951) esprimeva lo spirito di quella che in seguito sarebbe stata conosciuta come la beat generation: riappropriarsi dei grandi spazi americani, ripercorrere il mitico viaggio intrapreso dai pionieri, andare verso quel west che aveva perso la propria connotazione geografica per diventare puro simbolo e metafora della vita, cercare di raggiungere quella frontiera che, non essendo un luogo fisico, diventava sempre più indefinita e si allontanava sempre più. Ciò che si cercava, d’altronde, non aveva connotazioni spaziali, ma era una identità più vera e più umana di quella proposta dall’industria della cultura e dei consumi. Si cercavano le radici più profonde della società americana.
     La beat generation propose un viaggio senza una meta precisa ma come percorso interiore di scoperta di sé stessi e del senso essenziale del vivere liberato da condizionamenti sociali, da imposizioni, da regole esterne. Una scoperta magari facilitata da qualche sniffata ma che si realizzava attraverso e nel viaggio. Il viaggio, cioè, non era strumentale al raggiungimento di un luogo in cui si materializzava l’obiettivo che ci si era proposti e per raggiungere il quale era necessario intraprendere un cammino, ma era esso stesso il fine.
     In questo senso, il mettersi on the road si allontana dal modo con cui comunemente si è inteso e si intende il viaggio: partire da un punto A per arrivare al punto B in cui trova compimento la ragione del viaggio. Anche gli esploratori avevano un punto ben preciso su cui convergere, ancorché ignoto: le sorgenti del Nilo che fin dal tempo di Nerone venivano cercate senza successo; il passaggio a Nord Ovest che nessuno aveva mai attraversato ma che doveva esserci. Oppure si aveva chiaro dove andare e cosa cercare ma non si conosceva la via per arrivarci o vi era la curiosità di cercarne una nuova. Quando sir Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay conquistarono la cima dell’Everest avevano ben presente il traguardo, ma dovettero trovare il sentiero perché nessuno prima di loro l’aveva tracciato. Cristoforo Colombo sapeva dove erano le Indie e sapeva quale era la via per arrivarci, ma si prefisse di andare ad Oriente dirigendosi ad Occidente.
     Fra le persone che proposero una ragione speciale per viaggiare c’è una categoria che si è avventurata su strade incerte e rischiose per raggiungere una meta associata ad un obiettivo che trascende la condizione umana: i pellegrini. Il pellegrinaggio data a molti secoli fa. Nell’antica Grecia i grandi santuari panellenici consacrati al culto di Apollo o, verso la fine del V secolo a.C., ad Esculapio, attiravano numerose folle. Nel mondo cristiano il pellegrinaggio è stato un fenomeno imponente fin dai primi secoli. Secondo quanto viene tramandato, la prima pellegrina cristiana fu Sant’Elena, la madre di Costantino che si reca a Gerusalemme alla ricerca dei luoghi e dei segni della redenzione, dando avvio a quell’iter Hierosolymitanum che avrà un enorme rilievo nel mondo cristiano. A partire dal tardo medioevo, i pellegrini si muovono nel triangolo di cristianità che ha i vertici in Gerusalemme, Roma e Compostella che contenevano i luoghi simboli, rispettivamente, del Santo Sepolcro, delle tombe degli apostoli Pietro e Paolo, della tomba dell’apostolo Giacomo. Le stesse Crociate, erano intese come pellegrinaggio. Il percorso che portava ai luoghi sacri diventarono una sorta di “via sacra”, lungo la quale sorsero luoghi di devozione, di ristoro, di tappa, di cura, anticipando un modello che sarà alla base dello stesso turismo moderno. Gli itinerari erano marcati e non mancavano le guide per il pellegrino.  Come il Cammino di Santiago, quello "francese" da St. Jean Pied de Port a Santiago e le altre varianti, che in verità continua ad essere calpestato da un numero incredibile di giovani e meno giovani che, da soli o in piccoli gruppi, compiono un atto di fede, cercano un contatto diverso con la natura, scrutano il loro essere più profondo per recuperare una dimensione del vivere che abbia più senso. Come la via Francigena che conduceva a Roma, e il cui inizio è tutt’ora segnato da una pietra posta davanti alla cattedrale di Canterbury.
     Il viaggio è anche completamento della propria formazione. Oggi si effettuano i viaggi di studio, si partecipa a convegni scientifici, ci si intruppa nelle gite culturali, si prende l’aereo per andare a visitare mostre. Dal settecento, per quasi due secoli, fu di moda il grand tour, il giro intrapreso dai giovani rampolli dell’aristocrazia europea e della ricca borghesia che avevano bisogno di togliersi di dosso quanto di rozzo e grossolano li rivestiva e di rendersi accettabili negli ambienti bene. Per loro costituiva l’occasione per imparare a conoscere la politica, la cultura, l’arte, l’antichità dei paesi europei. Ma nel grand tour si avventuravano anche gli uomini di cultura e gli artisti per abbeverarsi alla fonte della Cultura e dell’Arte, identificata con la classicità e con il Rinascimento. L’Italia, con la sua eredità romana e con i suoi monumenti era diventata la tappa privilegiata, il posto che, per essere alla moda, era obbligatorio visitare. Si imparava dagli antichi modelli e si acquistavano opere d’arte, in particolare vedute del paesaggio italiano, e d’antiquariato con cui elevare il tono di castelli e ricche residenze. Era parte del rituale farsi ritrarre, avendo sullo sfondo ambienti bucolici e resti romani. Il diario del viaggio divenne una forma letteraria di successo.
     Non erano viaggi facili. La rete viaria era quanto restava, dopo oltre un millennio di abbandono, dell’imponente sistema infastrutturale costruito da Roma imperiale, un sistema di oltre 100.000 km di strade pavimentate. Le caratteristiche tecniche sono ancor oggi impressionanti: lo spessore complessivo dei quattro strati di diversi tipi di inerti che costituivano il fondo stradale poteva raggiungere anche il metro; la larghezza della carreggiata era di 4 metri per le strade consolari (idonea per il contemporaneo transito dei carri in ambedue le direzioni) e di 1,5-2,40 metri per le altre strade; la carreggiata era limitata su entrambi i lati da selci sopraelevati che fungevano da paracarri; al di là di questi, correvano delle banchine pedonali. Su quelle strade le legioni raggiungevano rapidamente qualsiasi luogo dell’esteso impero dove fosse richiesto il loro impiego; ma passano anche i corrieri, la posta, i commercianti, gli avventurieri, gli innovatori. La mappa generale della ramificazione delle vie consolari romane era in marmo ed era esposta nel Foro Romano. Di essa venivano realizzate, e vendute, copie in pergamena e mappe parziali che riproducevano itinerari particolari. Il viaggiatore che da Roma doveva andare in Oriente acquistava l'itinerario della Via Appia che lo portava a Brindisi dove si sarebbe imbarcato per la sua destinazione. Come nelle moderne guide, erano indicate le stazioni di servizio per i cavalli e i carri, le taverne, gli alberghi. Fra le mappe delle strade romane, ci è pervenuta, suddivisa in diverse pergamene, la Tabula Peutingeriana, una copia del XIII secolo, che riproduce l’intero impero romano, con tutte le principali strade e con tutte le stazioni intermedie che contenevano.
     Guardando al passato, si può affermare che la storia della mobilità, dei viaggi, dei grandi trasferimenti di persone è la storia affascinante dell’avventura umana, sia singola che collettiva: da Ötzi, l'uomo vissuto all'inizio dell'età del Rame (3300-3100 a.C.) che cerca di varcare le Alpi, all’esodo biblico del popolo ebreo, alla conquista del West, ad Amstrong che scende sulla luna.
Nella sempre più grigia Europa, invece, il massimo che si è riusciti ad immaginare in fatto di mobilità è la “Settimana europea della mobilità”, celebrata ogni anno a settembre dal 2002. Nel loro approccio tecnico-burocratico ai problemi, quelli della Commissione europea, nello specifico la Direzione generale per l’ambiente e i trasporti, hanno pensato che è utile “incoraggiare le autorità locali europee ad introdurre e promuovere misure di trasporto sostenibili e ad invitare i loro cittadini a cercare alternative all’uso dell’auto”.
     Abbandonati cavalli alati e grifoni selvaggi con cui librarsi in cielo e raggiungere mete lontane, non ci resta che affidarci a qualche mobility manager che ci proporrà il car sharing, il car pooling, il taxi collettivo. Oppure abbandonarci a premurose agenzie di viaggio che ci prelevano, ci impacchettano e dopo ore di viaggio, per terra, per mare, per cielo, ci depositano in un luogo fantastico in cui ritrovare esattamente le stesse cose di casa e dove, completamente segregati dal contesto locale, ci convinciamo che le uniche differenze rilevanti nel mondo riguardano la temperatura del mare e le ore di sole.
     Il viaggio è invece creatività, libertà, ricerca, relazione, introspezione ed apertura. Spalanca nuovi mondi, fornisce nuove opportunità, genera nuove sfide e nuovi rischi da accettare e vivere pienamente.
     La mobilità dovrebbe essere sinonimo di progresso e di evoluzione verso forme di vita e di organizzazione sociale più complesse ed intriganti.
     Il viaggio dovrebbe arricchire gli esseri umani, creando un mondo multidimensionale e sfaccettato, ridefinendo le nostre relazioni con il tempo, lo spazio e noi stessi.
      Dico dovrebbe perché in verità le mode e le nuove tecnologie delle comunicazioni possono rendere estremamente povero il viaggio, privandolo dell’elemento principale che lo rende interessante: la sorpresa. Grazie all’esposizione ad una quantità enorme di messaggi, sappiamo infatti in anticipo cosa e come vedere, cosa mangiare, cosa ci si può aspettare. Andiamo alla ricerca di quanto è già noto perché visto in televisione o descritto in una delle numerosissime pubblicazioni dedicate proprio alla meta del nostro viaggio. Finisce così che nel viaggio, cerchiamo, soprattutto, le conferme delle conoscenze che già riteniamo di possedere e, spesso, dei nostri pregiudizi culturali.
      Nell’età della pietra la mobilità era una nozione lineare e bidimensionale, un concetto associato a spazio e tempo.
     Che cosa è cambiato oggi? L’evoluzione tecnica e umana, la scienza e le tecnologie hanno progressivamente cambiato come pensiamo alla mobilità perché hanno modificato le idee di spazio e di tempo. La rapidità e la facilità dei trasporti accorciano e comprimono lo spazio ma, permettendo di arrivare a luoghi altrimenti irraggiungibili, dilatano gli spazi controllabili. La maggiore mobilità impedisce che si instauri un rapporto specifico con un luogo, per cui alla fine i luoghi sono intercambiabili, confusi, sfumati, compenetrabili. La nozione lineare di tempo, associata all’esperienza di vita circoscritta ad un determino ristretto ambito fisico, diventa circolare: l’idea evolutiva del tempo viene messa in crisi dal trovarsi in contesti sociali ed economici che non rispettano la nostra idea di un prima e di un dopo, di passaggio da una fase ad un’altra più avanzata; l’alternarsi di prima e di dopo, rompe la successione logica cui siamo stati abituati e ci proietta in una dimensione temporale che non ci apparteneva. L’accresciuta mobilità per ragioni non più collegate ad esigenze esistenziali (il turismo non risponde a bisogni primari come erano – e sono – per esempio, le migrazioni, i trasferimenti per lavoro) contribuisce a modificare le idee di spazio e di tempo. Forse si è avverato quanto suggeriva il matematico tedesco Hermann Minkowski un secolo fa: “D’ora in poi lo spazio di per sé stesso o il tempo di per sé stesso sono condannati a svanire in pure ombre, e solo una specie di unione tra i due concetti conserverà una realtà indipendente”
     Quando salta il nostro rapporto con tempo e spazio, tutto il mondo diventa più caotico, non per colpa del mondo, ma per la nostra incapacità di comprenderlo, di ricondurlo a schemi famigliari. Nell’attesa che le nostre strutture cognitive evolvano, possiamo recuperare l’atteggiamento primordiale che ancora sopravvive nel bambino nella sua scoperta del mondo: la sorpresa. Ecco, quindi, come prepararsi al viaggio e come viverlo: essere curiosi e sorprendersi continuamente.
     La globalizzazione dell’economia ha impresso un’accelerazione formidabile alla mobilità. Lo sviluppo dei commerci e degli scambi di beni e servizi, le transazioni finanziarie, le delocalizzazioni produttive, l’outsourcing, le acquisizioni di aziende, l’internazionalizzazione del mercato del lavoro, mettono in moto numeri enormi di persone. Alcune sono diventate dei veri giramondo.
      Un aspetto fondamentale della globalizzazione, è costituito dalla disseminazione della conoscenza, dell’informazione, dell’innovazione, della tecnologia. Il loro trasferimento costituisce il supporto indispensabile che rende possibile la globalizzazione economica. E’ un’attività che può essere vissuta in una dimensione a-spaziale ed a-temporale. In fondo, essere in Colombia o in Vietnam, in Russia o in Sud Africa cambia poco: le conoscenze da trasmettere sono le stesse ed identiche le modalità, la lingua è la medesima (una strana variante dell’Inglese che funziona da lingua franca), i comportamenti sono già previsti e codificati, i protocolli sono consolidati, i tempi rigidamente prefissati, e così via. I pasti si consumano nel ristorante con cucina internazionale dell’albergo la cui qualità è garantita da una delle grandi catene internazionali che hanno il pregio di non riservare sorprese, oppure in qualche ristorante per stranieri. L’eventuale tempo a disposizione viene impiegato a relazionarsi con l’azienda, con la famiglia, con gli amici, tutti spazialmente separati da grandi distanze ma resi presenti dai numerosi marchingegni che creano la finzione di trovarsi faccia a faccia con i nostri interlocutori. E’ triste vedere nelle grandi hall degli alberghi decine di persone fisicamente a contatto ma del tutto isolate, essendo ciascuna di esse in relazione con gente che non c’è. Immediatamente la memoria riporta alla coscienza le immagini, immortalate da film come Casablanca, delle hall degli alberghi quando non esistevano telefonini, I-pod, booknotes, e altre diavolerie del genere e la gente si cercava e si parlava, sprofondata in poltrone o sedute al bancone del bar, con l’immancabile wisky e la sigaretta accesa. La conoscenza del luogo si limita, quando l’orario degli aerei lo consente, a visitare qualcosa che non si può dire di non avere visto.
      Eppure le opportunità di contatti e di relazioni con ambienti diversi offerte dalla globalizzazione economica possono non solo compensare gli inevitabili disagi del muoversi frenetico ma divenire esse stesse la motivazione principale per tenere sempre la valigia pronta. Ubaldo Muzzatti, addetto al trasferimento di tecnologia, appartiene alla categoria di chi approfitta del lavoro per curiosare fra altre culture, altra gente, altri modi di vita. E appunta quello che lo colpisce e la reazione che provoca in lui, i frammenti in cui si imbatte e che diligentemente raccoglie. Alcuni di tali appunti e frammenti sono ora raccolti in questo libro. Non seguono una schematizzazione ordinata: ci sono osservazioni su come si lavora e ci si rapporta al lavoro, ma non è un trattato di sociologia del lavoro; ci sono notazioni su come le aziende sono organizzate, sugli stili gestionali, sui rapporti interni all’azienda, ma non è un trattato di organizzazione aziendale; ci sono pezzi di cultura locale, ma non è un trattato antropologico; ci sono osservazioni su come i compagni di avventura si rapportano alla situazione locale ma non è un racconto di vita. E’ narrazione di esperienze vissute, raccolta di impressioni lasciate da ogni viaggio, offerta a chi nel viaggio, sia esso per lavoro o per altre ragioni, cerca di arricchirsi assorbendo, certamente non in modo acritico, quanto ogni ambiente può offrire.

* Bruno Tellia è professore di Sociologia industriale al Dipartimento di Economia, Società e Territorio presso l’Università degli Studi di Udine

Il libro si trova alla pagina: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1038355




martedì 18 febbraio 2014

IN AMERICA. LA VOLIERA PIU' GRANDE DEL MONDO

In America. L'autore a Fort Worth nel Texas (dove comincia il West)

Gli Stati Uniti sono una terra di molti contrasti, tenuti insieme da una capacità d’integrazione che riesce a far convivere popoli e culture, climi e paesaggi affatto omogenei, architetture neoclassiche e grattacieli, i veicoli spaziali e i calessi degli Amish. Già arrivando sopra New York con un volo dall’Europa, si nota il “contrasto armonico” tra la Statua della Libertà e lo skyline di Manhattan. Giungendo, poi, all’aeroporto di Dallas – Fort Worth, meta finale del nostro viaggio di lavoro, inizia un percorso tra elementi contrastanti di ogni tipo e che pure coesistono senza sforzo apparente. Dall’avveniristico complesso aeroportuale texano al downtown di Fort Worth, “il luogo dove comincia il West”, si compie un viaggio avventuroso nello spazio e nel tempo. Il centro storico della città, infatti, è stato mantenuto come ai tempi della “frontiera” e quando c’è la fiera, si vedono ancora i cavalli legati alla staccionata fuori dei saloon.
     Quando giungemmo negli uffici della società di cui eravamo consulenti, la cosa che più ci colpì fu il contrasto tra i computer e le scrivanie su cui erano posati. Modernissimi i primi, modelli non ancora disponibili in Italia. Le scrivanie, invece, ci riportarono indietro agli anni cinquanta, alle cattedre di legno massiccio delle nostre maestre. Più tardi Mr. Lawson ci spiegò che, in fondo, una scrivania è solo un piano di appoggio e lavoro: fin che svolge questa funzione, non c’è motivo di cambiarla. Questa fu solo la prima lezione di “analisi del valore” che apprendemmo in quella trasferta.
     La seconda lezione arrivò per gradi nei giorni seguenti. Per il nuovo impianto, acquisito chiavi in mano in Italia, l’azienda texana stava costruendo un nuovo stabilimento. La prima volta che ci portarono in cantiere era già in piedi la struttura in carpenteria metallica. Dissero che sarebbe stato pronto nel giro di due settimane. Non dubitammo pensando a un rivestimento e alla copertura in pannelli prefabbricati. Invece, nei giorni seguenti, l’involucro del fabbricato, falde del tetto comprese, fu rivestito da una rete metallica leggera, tipo quella usata per i pollai. Sembrava un’enorme voliera. Aspettammo e vedemmo che, poi, cominciando dal tetto, sulla rete venivano stesi dei rotoli di materiale isolante supportato, verso l’interno del fabbricato, da una pellicola di plastica bianca. Infine all’esterno, fissandole con viti ai correnti metallici della struttura, furono fissate delle lamiere grecate, con la classica funzione di tamponamento con adeguata resistenza. Montate le porte nei vani predisposti, essendo privo di finestre per evitare le dispersioni termiche, il capannone era in pratica finito.
Mr. Hopkins, concluse la seconda lezione di “analisi del valore” facendoci osservare che, in fondo, la funzione propria del fabbricato, contenere in sicurezza e confortevolmente addetti, impianti e materiali, era soddisfatta. Ma io resto dell’idea che, in questo caso, abbia ragione il legislatore europeo che impone nei luoghi di lavoro un’adeguata finestratura, di cui una parte apribile, perché i lavoratori abbiano luce e aria naturale. Che d’altronde sarebbe bene assicurare anche ai polli.

Racconto Tratto da "LA VALIGIA DI PELLE"
   
Reperibile anche nelle librerie FELTRINELLI

lunedì 17 febbraio 2014

LA COPERTINA



PUBBLICATO SU "IL MIO LIBRO" http://ilmiolibro.kataweb.it/

SCHEDA: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1038355

SCHEDA DI PRESENTAZIONE

 “La 24 ore di pelle. E’ ancora in ufficio sotto il tavolo, come la lasciai al rientro dopo l’ultima trasferta. Dentro ci sono ancora gli strumenti di misura e di calcolo, il notes, le penne, il vocabolario tascabile...
     Aprendola, però, mi tornano pochi elementi tecnici e mi sembra lontano il tempo in cui ero un esperto di know-how, addetto al trasferimento della tecnologia in giro per il mondo.
      Piuttosto, dalla valigetta di pelle che mi regalarono i colleghi quando li lasciai per cambiare lavoro, emergono i volti delle persone incontrate, le loro voci, i discorsi che facevamo per conoscerci, per sapere qualcosa dei rispettivi paesi, dei modi di lavorare e del vivere fuori dalla fabbrica.
     Rivedo il treno a vapore della Cina; il saloon di Fort Worth, dove sostò Butch Cassidy in fuga dopo l’ultima rapina; l’auto in panne nella sterminata pianura Ucraina … e non passava nessuno.
 Ricordo le barzellette che ci raccontava in italiano l’interprete russa; il canto melodioso di quella cinese che non conosceva i Beatles…”.   (dalla quarta di copertina)

E’ un libro di racconti, o meglio di osservazioni, incontri, confronti, fatti durante le trasferte di lavoro. Un “giro del mondo” che tocca alcuni dei paesi in cui ho lavorato come esperto di tecnologia e di organizzazione industriale. Il mio ruolo, nel gruppo per il trasferimento del know-how, era la formazione del personale. Per questo passavo le giornate lavorative a stretto contatto con i tecnici locali; per parlare di lavoro, certamente, ma anche di altro. Tutto il tempo libero lo passavo a visitare i luoghi che ci ospitavano, a immergermi nelle loro realtà e nella cultura locale.
Nella Valigia sono riportate le osservazioni raccolte negli Stati Uniti d’America, in Cina, Russia, Ucraina, Romania, Grecia, Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Finlandia, Germania. Chiude il libro, una piccola anteprima (due incontri) dell’esperienza di lavoro in Italia e le osservazioni di un tecnico, rispetto a due temi di attualità in Italia, rapportati a quanto notato all’estero.


Dalla postfazione di Bruno Tellia, professore di sociologia industriale all’Università di Udine:

“Ubaldo Muzzatti, addetto al trasferimento di tecnologia, appartiene alla categoria di chi approfitta del lavoro per curiosare fra altre culture, altra gente, altri modi di vita. E appunta quello che lo colpisce e la reazione che provoca in lui, i frammenti in cui si imbatte e che diligentemente raccoglie. Alcuni di tali appunti e frammenti sono ora raccolti in questo libro.
        E’ narrazione di esperienze vissute, raccolta di impressioni lasciate da ogni viaggio, offerta a chi nel viaggio, sia esso per lavoro o per altre ragioni, cerca di arricchirsi assorbendo, certamente non in modo acritico, quanto ogni ambiente può offrire.”

Struttura del libro:

-Antefatti (introduzione dell’autore)
-Osservazioni, incontri, confronti: in America, in Cina, nelle Russie (Russia e Ucraina), in Europa (Romania, Grecia, Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Finlandia, Germania)
-Anteprima: in Italia: “Un friulano a Firenze”; in Friuli “L’accordatore russo
-Appendice: osservazioni di un tecnico  “Sulla produttività”; “Sull’organizzazione e gestione del territorio”
-Postfazione di Bruno Tellia

LA VALIGIA DI PELLE si può consultare e acquistare sul sito:  http://ilmiolibro.kataweb.it/
O sul sito:  http://www.lafeltrinelli.it/   o nelle Librerie Feltrinelli in tutta Italia

L’Ebook LA VALIGIA DI PELLE è disponibile in tutti i principali E-book store a partire da AMAZON 

L’autore in Cina tra tecnici locali e italiani

L'AUTORE

Ubaldo Muzzatti è nato a Castelnovo del Friuli. Sposato con due figlie, vive a Cordenons (PN).

Diplomato Perito Industriale. E’stato per quindici anni alle dipendenze di due grandi gruppi internazionali, uno italiano e uno francese. Poi per oltre venti anni ha esercitato la libera professione di consulente tecnologico e di organizzazione aziendale. Negli ultimi tempi ha svolto prevalentemente attività di formazione mettendo a disposizione dei giovani diplomati e laureati l’esperienza maturata.

Ha scritto racconti pubblicati su raccolte e riviste.
E’ redattore di articoli per riviste culturali.
E’ stato curatore di libri editi da associazioni culturali.
Con un racconto sulla Cina è stato tra i vincitori di “Raccontaestero 2011” concorso bandito da IRSE Istituto di Studi Europei di Pordenone.

I racconti di questa sua prima raccolta sono “osservazioni e riflessioni” fatte durante le trasferte di lavoro, in America, Cina ed Europa e una breve anticipazione dell’esperienza e degli incontri di lavoro in Italia.


L'autore in Ucraina con un venditore di semi di girasole e assiduo lettore

IL VIAGGIO: INDICE DEL LIBRO