La valigia di pelle, analisi sociologica del viaggiare
e dei viaggiatori
Commento al libro di Bruno Tellia *
«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo
arrivati.»
«Dove andiamo?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare».
Così lo scrittore statunitense Jack Kerouac nel libro On the road (1951) esprimeva lo spirito
di quella che in seguito sarebbe stata conosciuta come la beat generation: riappropriarsi dei grandi spazi americani, ripercorrere
il mitico viaggio intrapreso dai pionieri, andare verso quel west che aveva
perso la propria connotazione geografica per diventare puro simbolo e metafora
della vita, cercare di raggiungere quella frontiera che, non essendo un luogo
fisico, diventava sempre più indefinita e si allontanava sempre più. Ciò che si
cercava, d’altronde, non aveva connotazioni spaziali, ma era una identità più
vera e più umana di quella proposta dall’industria della cultura e dei consumi.
Si cercavano le radici più profonde della società americana.
La beat generation propose un
viaggio senza una meta precisa ma come percorso interiore di scoperta di sé
stessi e del senso essenziale del vivere liberato da condizionamenti sociali,
da imposizioni, da regole esterne. Una scoperta magari facilitata da qualche
sniffata ma che si realizzava attraverso e nel viaggio. Il viaggio, cioè, non
era strumentale al raggiungimento di un luogo in cui si materializzava
l’obiettivo che ci si era proposti e per raggiungere il quale era necessario
intraprendere un cammino, ma era esso stesso il fine.
In questo senso, il mettersi on the
road si allontana dal modo con cui comunemente si è inteso e si intende il
viaggio: partire da un punto A per arrivare al punto B in cui trova compimento
la ragione del viaggio. Anche gli esploratori avevano un punto ben preciso su
cui convergere, ancorché ignoto: le sorgenti del Nilo che fin dal tempo di
Nerone venivano cercate senza successo; il passaggio a Nord Ovest che nessuno
aveva mai attraversato ma che doveva esserci. Oppure si aveva chiaro dove
andare e cosa cercare ma non si conosceva la via per arrivarci o vi era la
curiosità di cercarne una nuova. Quando sir Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing
Norgay conquistarono la cima dell’Everest avevano ben presente il traguardo, ma
dovettero trovare il sentiero perché nessuno prima di loro l’aveva tracciato.
Cristoforo Colombo sapeva dove erano le Indie e sapeva quale era la via per
arrivarci, ma si prefisse di andare ad Oriente dirigendosi ad Occidente.
Fra le persone che proposero una ragione
speciale per viaggiare c’è una categoria che si è avventurata su strade incerte
e rischiose per raggiungere una meta associata ad un obiettivo che trascende la
condizione umana: i pellegrini. Il pellegrinaggio data a molti secoli fa.
Nell’antica Grecia i grandi santuari panellenici consacrati al culto di Apollo
o, verso la fine del V secolo a.C., ad Esculapio, attiravano numerose folle.
Nel mondo cristiano il pellegrinaggio è stato un fenomeno imponente fin dai
primi secoli. Secondo quanto viene tramandato, la prima pellegrina cristiana fu
Sant’Elena, la madre di Costantino che si reca a Gerusalemme alla ricerca dei
luoghi e dei segni della redenzione, dando avvio a quell’iter
Hierosolymitanum che avrà un enorme rilievo nel mondo cristiano. A partire
dal tardo medioevo, i pellegrini si muovono nel triangolo di cristianità che ha
i vertici in Gerusalemme, Roma e Compostella che contenevano i luoghi simboli,
rispettivamente, del Santo Sepolcro, delle tombe degli apostoli Pietro e Paolo,
della tomba dell’apostolo Giacomo. Le stesse Crociate, erano intese come
pellegrinaggio. Il percorso che portava ai luoghi sacri diventarono una sorta
di “via sacra”, lungo la quale sorsero luoghi di devozione, di ristoro, di tappa,
di cura, anticipando un modello che sarà alla base dello stesso turismo
moderno. Gli itinerari erano marcati e non mancavano le guide per il
pellegrino. Come il Cammino di Santiago, quello
"francese" da St. Jean Pied de Port a Santiago e le altre varianti,
che in verità continua ad essere calpestato da un numero incredibile di giovani
e meno giovani che, da soli o in piccoli gruppi, compiono un atto di fede,
cercano un contatto diverso con la natura, scrutano il loro essere più profondo
per recuperare una dimensione del vivere che abbia più senso. Come la via
Francigena che conduceva a Roma, e il cui inizio è tutt’ora segnato da una
pietra posta davanti alla cattedrale di Canterbury.
Il viaggio è anche completamento della
propria formazione. Oggi si effettuano i viaggi di studio, si partecipa a
convegni scientifici, ci si intruppa nelle gite culturali, si prende l’aereo
per andare a visitare mostre. Dal settecento, per quasi due secoli, fu di moda
il grand tour, il giro intrapreso dai
giovani rampolli dell’aristocrazia europea e della ricca borghesia che avevano
bisogno di togliersi di dosso quanto di rozzo e grossolano li rivestiva e di
rendersi accettabili negli ambienti bene. Per loro costituiva l’occasione per
imparare a conoscere la politica, la cultura, l’arte, l’antichità dei paesi
europei. Ma nel grand tour si avventuravano anche gli uomini
di cultura e gli artisti per abbeverarsi alla fonte della Cultura e dell’Arte,
identificata con la classicità e con il Rinascimento. L’Italia, con la sua eredità
romana e con i suoi monumenti era diventata la tappa privilegiata, il posto
che, per essere alla moda, era obbligatorio visitare. Si imparava dagli antichi
modelli e si acquistavano opere d’arte, in particolare vedute del paesaggio
italiano, e d’antiquariato con cui elevare il tono di castelli e ricche
residenze. Era parte del rituale farsi ritrarre, avendo sullo sfondo ambienti
bucolici e resti romani. Il diario del viaggio divenne una forma letteraria di
successo.
Non erano viaggi facili. La rete viaria
era quanto restava, dopo oltre un millennio di abbandono, dell’imponente
sistema infastrutturale costruito da Roma imperiale, un sistema di oltre
100.000 km di strade pavimentate. Le caratteristiche tecniche sono ancor oggi
impressionanti: lo spessore complessivo dei quattro strati di diversi tipi di
inerti che costituivano il fondo stradale poteva raggiungere anche il metro; la
larghezza della carreggiata era di 4 metri per le strade consolari (idonea per
il contemporaneo transito dei carri in ambedue le direzioni) e di 1,5-2,40
metri per le altre strade; la carreggiata era limitata su entrambi i lati da
selci sopraelevati che fungevano da paracarri; al di là di questi, correvano
delle banchine pedonali. Su quelle strade le legioni raggiungevano rapidamente
qualsiasi luogo dell’esteso impero dove fosse richiesto il loro impiego; ma
passano anche i corrieri, la posta, i commercianti, gli avventurieri, gli
innovatori. La mappa generale della ramificazione delle vie consolari romane
era in marmo ed era esposta nel Foro Romano. Di essa venivano realizzate, e
vendute, copie in pergamena e mappe parziali che riproducevano itinerari
particolari. Il viaggiatore che da Roma doveva andare in Oriente acquistava
l'itinerario della Via Appia che lo portava a Brindisi dove si sarebbe
imbarcato per la sua destinazione. Come nelle moderne guide, erano indicate le
stazioni di servizio per i cavalli e i carri, le taverne, gli alberghi. Fra le
mappe delle strade romane, ci è pervenuta, suddivisa in diverse pergamene, la Tabula Peutingeriana, una copia del XIII
secolo, che riproduce l’intero impero romano, con tutte le principali strade e
con tutte le stazioni intermedie che contenevano.
Guardando al passato, si può affermare che
la storia della mobilità, dei viaggi, dei grandi trasferimenti di persone è la
storia affascinante dell’avventura umana, sia singola che collettiva: da Ötzi,
l'uomo vissuto all'inizio
dell'età del Rame (3300-3100
a.C.) che cerca di varcare le Alpi, all’esodo biblico del popolo ebreo, alla conquista
del West, ad Amstrong che scende sulla luna.
Nella sempre più grigia Europa,
invece, il massimo che si è riusciti ad immaginare in fatto di mobilità è la
“Settimana europea della mobilità”, celebrata ogni anno a settembre dal 2002.
Nel loro approccio tecnico-burocratico ai problemi, quelli della Commissione
europea, nello specifico la Direzione generale per l’ambiente e i trasporti,
hanno pensato che è utile “incoraggiare le autorità locali europee ad
introdurre e promuovere misure di trasporto sostenibili e ad invitare i loro
cittadini a cercare alternative all’uso dell’auto”.
Abbandonati cavalli alati e grifoni
selvaggi con cui librarsi in cielo e raggiungere mete lontane, non ci resta che
affidarci a qualche mobility manager che ci proporrà il car sharing, il car
pooling, il taxi collettivo. Oppure abbandonarci a premurose agenzie di viaggio
che ci prelevano, ci impacchettano e dopo ore di viaggio, per terra, per mare,
per cielo, ci depositano in un luogo fantastico in cui ritrovare esattamente le
stesse cose di casa e dove, completamente segregati dal contesto locale, ci
convinciamo che le uniche differenze rilevanti nel mondo riguardano la
temperatura del mare e le ore di sole.
Il viaggio è invece creatività, libertà,
ricerca, relazione, introspezione ed apertura. Spalanca nuovi mondi, fornisce
nuove opportunità, genera nuove sfide e nuovi rischi da accettare e vivere
pienamente.
La mobilità dovrebbe essere sinonimo di
progresso e di evoluzione verso forme di vita e di organizzazione sociale più
complesse ed intriganti.
Il viaggio dovrebbe arricchire gli esseri
umani, creando un mondo multidimensionale e sfaccettato, ridefinendo le nostre
relazioni con il tempo, lo spazio e noi stessi.
Dico dovrebbe perché in verità le mode e
le nuove tecnologie delle comunicazioni possono rendere estremamente povero il
viaggio, privandolo dell’elemento principale che lo rende interessante: la
sorpresa. Grazie all’esposizione ad una quantità enorme di messaggi, sappiamo
infatti in anticipo cosa e come vedere, cosa mangiare, cosa ci si può
aspettare. Andiamo alla ricerca di quanto è già noto perché visto in
televisione o descritto in una delle numerosissime pubblicazioni dedicate
proprio alla meta del nostro viaggio. Finisce così che nel viaggio, cerchiamo,
soprattutto, le conferme delle conoscenze che già riteniamo di possedere e,
spesso, dei nostri pregiudizi culturali.
Nell’età della pietra la mobilità era una
nozione lineare e bidimensionale, un concetto associato a spazio e tempo.
Che
cosa è cambiato oggi? L’evoluzione tecnica e umana, la scienza e le tecnologie
hanno progressivamente cambiato come pensiamo alla mobilità perché hanno
modificato le idee di spazio e di tempo. La rapidità e la facilità dei
trasporti accorciano e comprimono lo spazio ma, permettendo di arrivare a
luoghi altrimenti irraggiungibili, dilatano gli spazi controllabili. La
maggiore mobilità impedisce che si instauri un rapporto specifico con un luogo,
per cui alla fine i luoghi sono intercambiabili, confusi, sfumati,
compenetrabili. La nozione lineare di tempo, associata all’esperienza di vita
circoscritta ad un determino ristretto ambito fisico, diventa circolare: l’idea
evolutiva del tempo viene messa in crisi dal trovarsi in contesti sociali ed
economici che non rispettano la nostra idea di un prima e di un dopo, di
passaggio da una fase ad un’altra più avanzata; l’alternarsi di prima e di
dopo, rompe la successione logica cui siamo stati abituati e ci proietta in una
dimensione temporale che non ci apparteneva. L’accresciuta mobilità per ragioni
non più collegate ad esigenze esistenziali (il turismo non risponde a bisogni
primari come erano – e sono – per esempio, le migrazioni, i trasferimenti per
lavoro) contribuisce a modificare le idee di spazio e di tempo. Forse si è
avverato quanto suggeriva il matematico tedesco Hermann Minkowski un secolo fa:
“D’ora in poi lo spazio di per sé stesso o il tempo di per sé stesso sono
condannati a svanire in pure ombre, e solo una specie di unione tra i due
concetti conserverà una realtà indipendente”
Quando salta il nostro rapporto con tempo
e spazio, tutto il mondo diventa più caotico, non per colpa del mondo, ma per
la nostra incapacità di comprenderlo, di ricondurlo a schemi famigliari.
Nell’attesa che le nostre strutture cognitive evolvano, possiamo recuperare
l’atteggiamento primordiale che ancora sopravvive nel bambino nella sua
scoperta del mondo: la sorpresa. Ecco, quindi, come prepararsi al viaggio e
come viverlo: essere curiosi e sorprendersi continuamente.
La globalizzazione dell’economia ha
impresso un’accelerazione formidabile alla mobilità. Lo sviluppo dei commerci e
degli scambi di beni e servizi, le transazioni finanziarie, le delocalizzazioni
produttive, l’outsourcing, le acquisizioni di aziende, l’internazionalizzazione
del mercato del lavoro, mettono in moto numeri enormi di persone. Alcune sono
diventate dei veri giramondo.
Un aspetto fondamentale della
globalizzazione, è costituito dalla disseminazione della conoscenza,
dell’informazione, dell’innovazione, della tecnologia. Il loro trasferimento
costituisce il supporto indispensabile che rende possibile la globalizzazione
economica. E’ un’attività che può essere vissuta in una dimensione a-spaziale
ed a-temporale. In fondo, essere in Colombia o in Vietnam, in Russia o in Sud
Africa cambia poco: le conoscenze da trasmettere sono le stesse ed identiche le
modalità, la lingua è la medesima (una strana variante dell’Inglese che
funziona da lingua franca), i comportamenti sono già previsti e codificati, i
protocolli sono consolidati, i tempi rigidamente prefissati, e così via. I
pasti si consumano nel ristorante con cucina internazionale dell’albergo la cui
qualità è garantita da una delle grandi catene internazionali che hanno il
pregio di non riservare sorprese, oppure in qualche ristorante per stranieri.
L’eventuale tempo a disposizione viene impiegato a relazionarsi con l’azienda,
con la famiglia, con gli amici, tutti spazialmente separati da grandi distanze
ma resi presenti dai numerosi marchingegni che creano la finzione di trovarsi
faccia a faccia con i nostri interlocutori. E’ triste vedere nelle grandi hall
degli alberghi decine di persone fisicamente a contatto ma del tutto isolate,
essendo ciascuna di esse in relazione con gente che non c’è. Immediatamente la
memoria riporta alla coscienza le immagini, immortalate da film come
Casablanca, delle hall degli alberghi quando non esistevano telefonini, I-pod,
booknotes, e altre diavolerie del genere e la gente si cercava e si parlava, sprofondata
in poltrone o sedute al bancone del bar, con l’immancabile wisky e la sigaretta
accesa. La conoscenza del luogo si limita, quando l’orario degli aerei lo
consente, a visitare qualcosa che non si può dire di non avere visto.
Eppure le opportunità di contatti e di
relazioni con ambienti diversi offerte dalla globalizzazione economica possono
non solo compensare gli inevitabili disagi del muoversi frenetico ma divenire
esse stesse la motivazione principale per tenere sempre la valigia pronta. Ubaldo Muzzatti, addetto al
trasferimento di tecnologia, appartiene alla categoria di chi approfitta del
lavoro per curiosare fra altre culture, altra gente, altri modi di vita. E
appunta quello che lo colpisce e la reazione che provoca in lui, i frammenti in
cui si imbatte e che diligentemente raccoglie. Alcuni di tali appunti e
frammenti sono ora raccolti in questo libro. Non seguono una schematizzazione
ordinata: ci sono osservazioni su come si lavora e ci si rapporta al lavoro, ma
non è un trattato di sociologia del lavoro; ci sono notazioni su come le
aziende sono organizzate, sugli stili gestionali, sui rapporti interni
all’azienda, ma non è un trattato di organizzazione aziendale; ci sono pezzi di
cultura locale, ma non è un trattato antropologico; ci sono osservazioni su
come i compagni di avventura si rapportano alla situazione locale ma non è un
racconto di vita. E’ narrazione di esperienze vissute, raccolta di impressioni
lasciate da ogni viaggio, offerta a chi nel viaggio, sia esso per lavoro o per altre
ragioni, cerca di arricchirsi assorbendo, certamente non in modo acritico,
quanto ogni ambiente può offrire.
* Bruno Tellia è professore di Sociologia industriale al Dipartimento di Economia,
Società e Territorio presso l’Università degli Studi di Udine
Il libro si trova alla pagina: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1038355